Se ti ritrovi a leggere Bukowski dopo la mezzanotte… qualcosa è andato storto!
di Daniele (stucchevole assaggiatore di libri)
Quando scrissi La seconda mezzanotte stavo leggendo Bukowski. Non l’ho mai ammesso prima di adesso, nemmeno a me stesso.
Ricordo che stavo scrivendo qualcosa che mi riguarda un po’ troppo da vicino. Le scommesse e i casinò. E le donne. Dei cavalli non me ne importava niente, o meglio, non ci prendevo mai. Quasi mai, una volta centrai una tris a Tor di Valle per puro culo. Giocai a caso il numero 1, che arriva più degli altri sul podio, statisticamente, credo perché il cavallo parte dallo steccato, fa meno metri, può guadagnare la testa con facilità e mantenerla se non ci sono combine in corso e il cavallo è in forma…
Insomma… dicevo che presi la tris giocando l’1 il 2 e il 5 e arrivarono effettivamente 5 – 2 – 1 … Un milione e seicentocinquantamila lire. Ne lasciai 50 mila di mancia alla cassiera giovane e carina e in cambio ci guadagnai un’uscita per la sera dopo che si concluse in modo abbastanza ordinario. Si chiamava credo Silvia, ma potrei sbagliarmi, era molto carina perché quando entravo in sala corse mi teneva da parte il sacchetto con i libri che ostinatamente acquistavo alla Feltrinelli o nelle bancarelle dell’usato. All’epoca leggevo Walter Benjamin, Dostoevskij, Fante, Flaubert, Sartre e Stevenson. Oltre a qualche novità editoriale che ogni tanto mi derubava con promesse raramente mantenute.
Ricordo ancora alcuni nomi di cavalli che ho giocato solo una volta e mi hanno fatto vincere: e che giocai solo perché mi piacevano di nome…pensate quanto sono stupidi e sognatori i giocatori. Ma tanto intendersi di cavalli vi assicuro che non serve a nulla.
Sì, ecco, ora ricordo: giocai un certo Talleur, un altro che si chiamava RamboCiak e Standing Ovation. E poi il mio preferito, quello che giocavo sempre e solo per il nome, un cavallo da galoppo di nome “Confortably Numb” . Oltre al nome mi piaceva anche per le sue caratteristiche nella corsa. Di solito faceva i 2000 metri, partiva sempre lento e rimaneva indietro e poi sui 200 finali girava a largo di tutti e finiva come un fulmine andando spesso a vincere o piazzandosi. Preferivo questi cavalli da rush finale piuttosto che quelli che mantenevano la testa allo steccato e poi ti ammazzavano le coronarie negli ultimi metri mentre quelli dietro avanzavano a velocità doppia.
Credo di aver perso il filo, perché scrivo sotto assenza mercuriale nel cervello e in stato di grave difficoltà esistenziale, ma ricordo che si parlava di giocate ai cavalli. Non tanto di cavalli, però. Mi piaceva molto di più la roulette e appena potevo, appena guadagnavo qualcosa di più dal mio primo vero lavoro retribuito in pubblicità, me ne andavo a Montecarlo o a Saint Vincent – quest’ultimo però non mi piaceva molto perché ne uscivo quasi sempre con le pezze al culo.
A Venezia, al Lido, andai solo due volte ma in un’occasione fu memorabile. Vi racconto perché ne vale la pena.
Ero lì per il festival del cinema, premio alla sceneggiatura di una pellicola di cui non posso dirvi oltre, e tutti i giorni incrociavo gli occhi al Casinò dell’isoletta. Ma tenni duro fino all’ultima sera. Poi raccattai 250 mila lire (era il 2000) ed entrai avvicinandomi ai tavoli in compagnia di una giovane giornalista free lance che divideva il letto con me in albergo (dividevamo il letto per dividere le spese).
Puntai esattamente questi numeri: 1 – 14 – 20 (tre numeri vicini) e zero 26 e 32 (altri tre numeri vicini) e il 17 perché il 17 nero se giochi alla roulette non lo puoi escludere, anche se i numeri che escono di più, non si sa perché sono il 18 e il 21. Che non gioco mai tranne nei carré. Allora, giuro che uscirono in sequenza: tre volte il 17, poi l’1 e tre volte il 20. Quindi lo zero, di nuovo il 17 e il 14, e infine il 20.
In mezz’ora ero praticamente ricco.
Si era radunata una piccola folla di curiosi che applaudiva ogni volta che usciva il numero. E il croupier che mi portava le fiches dicendo – Vince ancora una volta il signore!
La giornalista accanto a me, che il diavolo se la porti lontano, continuava a strattonarmi fin dalla seconda vincita invitandomi a lasciare il tavolo prima di perdere tutto. Non sapeva, la cagna, che non si lascia mai un tavolo mentre si vince, si lascia quando si sta perdendo. Pochi giocatori conoscono questa regola e per quello vanno in malora mentre io sono ancora qui che scrivo romanzi bellissimi e finalisti di premi letterari.
Gli altri, i cattivi giocatori, insistono quando perdono con la speranza vana di rifarsi, e appena vincono due soldi se ne scappano. In realtà la roulette desidera essere stesa a gambe all’aria quando la fortuna sta girando dalla tua parte, mentre si accanisce e ti massacra se le cose girano male. La roulette è come una donna, una donna bastarda. Ma anche come certi uomini.
Le cose stanno sempre cosi, no? Quando non hai bisogno ti portano aiuto, quando stai affogando dove ti giri ti giri non trovi nessuno, o se ti va proprio male, becchi anche chi ti schiaccia sotto con una pedata. Non accadde quella sera però, e lasciai il Lido con trentadue milioni di lire.
Dopo averne lasciati almeno un paio in mance e aver offerto a tutti i presenti quattro bottiglie di Champagne Tutankhamon o come diavolo si chiama quel bottiglione da diversi litri.
È superfluo dirvi che quel denaro non durò molto, i soldi vinti al gioco non durano mai tanto. Ma qualche settimana riuscii a spassarmela. I giocatori quando vincono grosse somme sono i più generosi di tutti, perché sono soldi vinti facile (facile per dire, in realtà sono sudatissimi) e perché credo il giocatore si senta un po’ in colpa per tutte le volte che è rimasto in miseria e ha dovuto scroccare, farsi prestare denaro, rubarlo, o vendendosi qualcosa. Io ricordo che nel mio piccolo quando ero proprio nella merda mi vendevo i libri alle bancarelle.
All’epoca li pagavano il 25% del prezzo di copertina, ma siccome ne compravo tanti, capitava di venderne anche un bel blocco cosi da pagarci qualche cena e un po’ di sfizi. Ovviamente poi appena vincevo ricompravo i libri che mi era dispiaciuto vendere.
Credo di aver comprato almeno sei volte I fratelli Karamazov (con Dostoevskij, anche lui giocatore, era più facile, so che non se la sarebbe presa d’esser svenduto in bancarella).
Poi 3 volte vendetti Pynchon e altrettante Balzac; 3 volte L’Ulisse di Joyce; 3 volte i saggi di Calvino in cofanetto dei Meridiani Mondadori; 3 volte Fenoglio nella Pleiade; 2 volte Pavese nella stessa edizione; 4 volte l’Angelus novus di Walter Benjamin, e una volta addirittura mi capitò per caso di ricomprare la mia stessa copia in un’altra città (che fosse anche il precedente possessore un giocatore?).
E innumerevoli altri, che un po’ ho ritrovato, e un po’ si sono persi per sempre. Morale, ho capito che comprare compulsivamente libri non era un male assoluto perché potevano tornarmi d’aiuto al momento del vero bisogno, e non solo per leggerli. In teoria dovrebbero essercene delle altre, di morali e di insegnamenti ma non sta a me elencarveli. Tirate le vostre somme e io tirerò le mie.
Le mie si fa presto a tirarle. Non ho più il becco di un euro. E diversi creditori che mi rincorrono. A volte per consolarmi penso che sia peggio per loro averli da prendere che per me da doverli dare.
Ma non è vero. Mi struggo immensamente per i debiti. Vorrei non averne. Vorrei non aver buttato tutti quei soldi, più che altro.
La gente a volte quasi invidia chi vive una vita avventurosa, disperata, adrenalinica. Ma dovrebbero sapere che fa molto più male il contrario. Chi ha vissuto una vita tumultuosa invidia sempre chi si sta riposando tranquillo, chi dorme sereno perché ha i suoi problemi ordinari ma non deve inventarsi delle giravolte incredibili e nascondersi, non farsi vivo, campare scuse, scomparire, vedere le persone a cui vuoi bene andarsene via una dopo l’altra. Direte: ve la siete voluta. Rispondo: è vero.
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